No ad un posto in prima squadra, no alla convocazione in nazionale giovanile. Ragazzi di talento che rifiutano la pallanuoto, la mollano o preferiscono dedicarle un tempo minore rispetto a quello che serve per emergere a livello agonistico. Parliamo non solo di universitari, ma anche di giovani pallanuotisti che frequentano ancora le superiori. Quello dell’abbandono o della mancata risposta ad una chiamata in azzurro è un problema che esisteva anche in passato, ma che negli ultimi tempi sembra essersi esteso. E se la scelta di vita del napoletano Antonio Maccioni, che ha detto no all’A1 e a un probabile futuro in azzurro per cambiare città e frequentare l’Università Bocconi di Milano, può essere catalogata come comprensibile, altri rifiuti appaiono invece più difficili da capire.
È il caso di Gaetano Baviera, che ha mollato definitivamente la pallanuoto pur avendo dimostrato di meritare l’A1, o dei ben tre azzurrini (Spione, Faraglia e De Robertis) che in estate hanno rinunciato a partecipare agli Europei U17 di Malta. Nell’ambito del processo di rifondazione avviato in estate, il Posillipo ha aggregato molti dei suoi U20 e U17 alla prima squadra: alcuni di loro hanno declinato l’invito, affermando di preferire la serie B in prestito alternativo. È giusto domandarsi, dunque, se sia la pallanuoto a chiedere troppo a questi ragazzi, oppure se il problema vada oltre il nostro sport e riguardi le nuove generazioni.
TROPPO STUDIO E MENO APPEAL. “Il problema è complesso – dice Tania Di Mario, che pur laureandosi ha mollato la pallanuoto solo a 38 anni e che ora allena le giovanili de L’Ekipe Orizzonte, oltre ad essere il dirigente del club etneo -. Ora molte università hanno una frequenza obbligatoria e i ragazzi non possono usufruire della flessibilità che, ad esempio, ho avuto io. Anche la scuola non ti aiuta a studiare e a fare sport. Non è facile, ma non credo che sia impossibile. All’Orizzonte invitiamo tutte le nostre atlete a iscriversi all’università o a studiare. È fondamentale dare ai ragazzi la possibilità di non dover scegliere”. Per Fabrizio Buonocore, 41enne capitano della Canottieri Napoli e commercialista, “i giovani sono cambiati”. “Prima non si sarebbe mai pensato di non accettare un posto in A1 al Posillipo – dice -. Su queste scelte incide sicuramente il fatto che la pallanuoto ha meno appeal di un tempo, se pensiamo al calo dei compensi e del valore stesso del campionato, anche se forse oggi allenarsi per giocare in A1 è meno impegnativo che in passato. La verità è che dipende da quanta passione hai: sono tanti i laureati che hanno fatto sport ad alto livello”.
FATTORE ECONOMICO. Per Claudio Mistrangelo, direttore tecnico del Savona, grande esperto di pallanuoto giovanile e non solo, il fattore economico ha un peso rilevante. “Non siamo più negli anni ’90 – spiega Mistrangelo -, quando la pallanuoto metteva davanti ai ragazzi prospettive economiche differenti: un 20enne poteva scegliere di laurearsi a 28 anni invece che a 24, ma intanto si metteva in tasca qualcosa. È normale assistere ad una flessione delle vocazioni per uno sport che richiede sacrifici, impegno e che non dà più molte prospettive a livello economico e lavorativo. L’incertezza sociale attuale è molto maggiore, genera insicurezza ed è normale che i ragazzi preferiscano pensare allo studio. Parlo comunque di un fenomeno che conosco poco direttamente, a Savona non abbiamo molti giovani che lasciano la pallanuoto anzitempo. Quanto ai no alle convocazioni, è un problema che può essere legato a una programmazione troppo densa di campionati e impegni internazionali che non lascia spazio per il tempo libero”.
TANTE ALTERNATIVE. Per Mino Di Cecca, la questione va oltre la pallanuoto. “Parliamo di un problema generazionale – spiega il c.t. della Nazionale U17, che è anche insegnante -. C’è qualcosa che è cambiato realmente nei ragazzi e attorno a loro e fare paragoni con il passato è fuori luogo. Adesso i giovani hanno così tante opzioni, oltre allo sport, che possono scegliere quella che li soddisfa di più e li impegna di meno, mentre noi allenatori dobbiamo essere soddisfatti di coloro che dedicano 2 ore al giorno per tutta la settimana alla pallanuoto. Prima la piscina era una valvola di sfogo, adesso riuscire a farli restare per 2 ore è complicato. La pallanuoto è uno sport faticoso, che richiede tanto impegno e che mentalmente ti risucchia. Immaginate un ragazzo che gioca in un paio di campionati giovanili e poi in prima squadra: non ha momenti liberi e prima o poi esplode, richiamato da tutte quelle cose che non può fare, anche rispetto ai suoi coetanei”.
È un processo irreversibile? ”È la società che è cambiata e anche noi allenatori dobbiamo adattarci. In nazionale abbiamo elaborato degli allenamenti non massacranti, ma motivanti, che abbiano al centro il gioco, la palla. Dobbiamo far piacere questo sport per quello che è, rendere più gradevole l’impegno dei ragazzi, così verranno con voglia ad allenarsi e impareranno di più, risolvendo un altro problema generazionale. Molti di loro, spinti dai genitori o dagli stessi allenatori, pensano di essere campioni già da piccoli. E quando trovano una difficoltà nel migliorare, nel fare un passo in avanti, perdono motivazioni e finiscono con il lasciare lo sport. A mollare sono proprio quelli che hanno mostrato più giovani il loro talento e che potenzialmente potrebbero diventare atleti migliori. Finisce così che vanno avanti i più volenterosi, quelli che si allenano pur sapendo che potrebbero non farcela, invece dei più bravi. Ed è una questione che non riguarda solo la pallanuoto”.
RUOLI E MOTIVAZIONI. Lo conferma anche Andrea Capobianco, coach della nazionale di basket U18 e responsabile dell’intero settore giovanile azzurro, dopo una lunga esperienza a livello di club. “L’abbandono precoce dello sport è un problema – afferma Capobianco – ma i ragazzi di oggi non sono migliori o peggiori di quello del passato, sono solo diversi e la capacità di un insegnante o di un allenatore deve essere quella di adattarsi. Siamo noi adulti ad avere maggiori responsabilità nei loro confronti, siamo noi che dobbiamo fornire motivazioni. Se il senso del dovere una volta era innato, ora lo è il senso del piacere: i ragazzi fanno quello che a loro piace, anche perché possono scegliere tra molte attività a cui dedicarsi, e dunque noi allenatori dobbiamo rendere appetibile quello che si fa in allenamento. Lo sport è sì sacrificio, ma è anche piacere”.
Nella costruzione delle motivazioni, le capacità degli allenatori sono fondamentali. “In passato – continua Capobianco – i ruoli erano ben definiti: c’era il professore, il tecnico, il genitore, e i ragazzi li riconoscevano come tali. Oggi i ragazzi vogliono capire che ruolo hai e un allenatore deve dimostrargli di essere tale ogni giorno, con conoscenze e coerenza. Deve mostrare le differenze tra il suo ruolo e quello di genitore o di professore. La confusione dei ruoli ad oggi è un problema, mi spaventa sentire di genitori amici dei figli o di allenatori amici dei giocatori. L’allenatore ha dei paragrafi in comune con la figura dell’amico o del genitore, ma non lo stesso ruolo. E i ragazzi in palestra vogliono vedere l’allenatore, non l’amico o il papà. Se lo riconoscono, si fidano e rispondono agli stimoli, alle motivazioni che sei pronto a dargli. E le chance che lasci lo sport si riducono”.
0 commenti:
Posta un commento